Che aveva detto Giulio? Che sarebbe stato un gioco da ragazzi? Facile per lui che se ne stava comodamente seduto davanti a un pc. Sono un mutaforme gatto ma questo non significava che avessi sette vite.
Non che avessi sottovalutato la sorveglianza ma non potevo comunque restare indifferente a quello che vedevo già fuori dalla lussuosa residenza che ospitava il mio bersaglio.
Stavolta il caro ispettore Giannini aveva dato il meglio di sé. Quel diamante, dopotutto, era il tesoro del miliardario del Sud Corea, Min Jo. Di un colore rosa pallido, era chiamato l'occhio di Venere. Si diceva che avesse fatto parte della collezione di Maria Antonietta. Ed ora si trovava qui, poco fuori dalla capitale della nostra bella Toscana.
Forza e coraggio.
Le guardie in guardino fu uno scherzo passarli con la mia forma felina, pur essendo tantissimi, ma quello che mi preoccupava era l'interno. Poliziotti armati fino ai denti pattugliavano ogni angolo ma il mio istinto animale aiutava molto per evitarli. Corsi verso la sala del tesoro e la vidi. Meravigliosa e lucente, sopra il suo piedistallo. Dentro non c'era nessuno ma qui subentrava la tecnologia. Fili di luce rossi riempivano la stanza e appena ne avessi sfiorato uno, sarebbe scattato l'allarme. Ecco che entrava in scena il mio complice.
Giulio aveva solo sedici anni ma era un hacker professionista. Aveva il classico aspetto di un nerd occhialuto quindi chi penserebbe mai a guardarlo che era un criminale ben pagato?
Trovarlo non fu facile ma grazie ai miei contatti ero riuscito a trovare un ottimo compagno di avventure. Mai sottovalutare Rafael Bronzetti.
Non avevo l'orologio con me ma sentivo che mancavano pochi istanti che la magia si sarebbe manifestata.
Ed ecco il buio. Un black out colpì l'intero palazzo e subito corsi verso il mio tesoro. Lo afferrai con la bocca e scappai alla velocità della luce. Missione compiuta.
Fui già fuori dall'edificio quando suonò l'allarme e sorrisi compiaciuto.
Solo quando arrivai nel punto dove avevo lasciato la mia Alfa Romeo azzurra, mi ritrasformai in umano. Presi i vestiti dal bagagliaio e mi rivestii in fretta. Il diamante in tasca, mi accomodai sul sedile e sfrecciai verso il mio rifugio nel bosco.
Feci appena otto chilometri che sentii i sensi in allerta. Mi girai a destra, niente. A sinistra, niente. Ma in un attimo, sbucarono due macchine davanti a me a bloccarmi la strada. Frenai e guardai chi c'era alla guida di quella più grande.
L'ispettore Giannini. Dovevo aspettarmelo che non si sarebbe lasciato fregare così. Mi ritrovai circondato da circa trenta poliziotti.
«Sei in trappola, gattino.» mi urlò l'uomo. Doveva avere all'incirca quarant'anni, con cortissimi capelli castani e occhi neri che avevano il potere di mettermi soggezione. Saranno tipo un decennio che è diventato il mio incubo.
Uscii dal veicolo e alzai le mani in aria vista la minaccia delle pistole puntate.
«Ma guarda chi si vede. Come hai fatto a trovarmi così in fretta?»
Mi indicò il diamante nella mia tasca. No, eppure ero sicuro che non ci fosse un localizzatore all'interno.
«Abbiamo impregnato il gioiello con una sostanza inodore che può essere rilevata nel radar. Bel trucchetto, vero?»
«Complimenti. Ammetto che la scienza ha fatto passi da gigante dall'esplosione mutante.» fischiai in segno di ammirazione.
«Ora, se permetti, vogliamo indietro il diamante. Il coreano rivuole il suo giocattolo.» allungò la mano per rendere il concetto più chiaro.
Ma pensava davvero che mi arrendessi così? Non mi conosceva ancora, a quanto pare.
«Mi dispiace ma ne va del mio orgoglio.»
Non gli diedi il tempo di intervenire che estrassi dalla manica della mia giacca una piccola bomba fumogena. Un trucco che funziona sempre. La buttai giù e mi ritrasformai in gatto nella coltre di fumo che si era formata. Con i miei nemici senza il beneficio della vista, corsi via nelle profondità del bosco, con il diamante in bocca. Avrei pensato presto a come togliergli quella sostanza localizzabile ma ora dovevo guadagnare molta distanza.
Per non farci mancare niente, cominciò anche a piovere. Maledizione, odiavo il pelo bagnato.
Corsi a perdifiato. Gli alberi, la pioggia, non feci più caso a niente che mi circondasse. Volevo solo macinare chilometri da Giannini e la sua squadra.
Solo quando non sentii più il loro odore che mi fermai. Lì, a pochi passi, c'era un ruscello. Sperai che immergendoci il diamante ne avrebbe tolto la sostanza. Mi trasformai in umano solo per poter usare le mani e pulire il gioiello. Sperai che funzionasse.
Poi mi ritrasformai in gatto e ancora con il bottino in bocca, procedetti per il bosco.
Fu un attimo, il gracchiare di un corvo mi distrasse e, da sotto le foglie, una trappola aguzza mi trafisse la zampa posteriore sinistra.
Il dolore arrivo immediato e persi la presa sul gioiello. Merda, non me ne riusciva una oggi.
Poi, seguita dal dolore, arrivo la sonnolenza. A quanto pare le lame erano state ricoperte di veleno narcotizzante. Dannazione.
Il buio mi colse e non potei fare niente per impedirlo.
La prima cosa che vidi, non appena aprii gli occhi, fu una copertina giallo limone. Scattai all'istante. Non ero più nel bosco, questo era certo.
Ero in una stanza, ancora nella forma di gatto nero, e mi alzai dalla cesta in cui mi trovavo per perlustrarla ma il dolore alla zampa me lo impedì.
«Cosa stai tentando di fare, piccolo? Non devi ancora muoverti.» sentii la voce di una donna e mi girai verso la soglia.
La donna in questione doveva avere all'incirca venticinque anni e teneva in mano una ciotola con del latte caldo all'interno. Lo percepivo dall'odore, per la precisione quello di capra. Ma a quello si univa un forte aroma di torta di mele. La mia preferita. Lo sentivo forte e chiaro ora che la porta era aperta sul corridoio.
I miei occhi azzurri la scrutarono diffidenti ma rimasi comunque fermo sulla cesta.
Lei si accucciò e mi avvicinò la ciotola.
«Tieni. È l'ora della pappa. Te la sei passata veramente male sotto a quel tempaccio eh»
Continuava a parlare pur sapendo che, in teoria, gli animali non potevano comprenderla. Mentre io non facevo che pensare a quel profumino dolce della torta. Se non fosse stato per la zampa ferita, sarei potuto sgattaiolare in cucina per prendermene una fetta almeno.
Cominciai a leccare il latte, sentendo il suo sguardo perennemente addosso. Quanto detestavo questa cosa da felini, ma come facevano a sopportarlo? In tutti questi anni, avevo capito che i gatti non avevano privacy. Sopratutto quelli in casa.
Ripulii la ciotola così che lei me lo portò via. Mi disse che sarebbe tornata dopo per cambiarmi la fasciatura sulla zampa quindi qualche ora di tempo per me l'avevo, finalmente.
Mi risultò difficile muovermi ma avevo un repellente bisogno di chiudere le tende. C'era troppo sole in quella stanza e avrei riposato meglio senza. Sì, ok, ero pignolo tanto.
Mi ritrasformai in umano e, incurante della nudità, mi allungai verso la tenda.
Nemmeno il tempo di spostarla che sentii la porta aprirsi di nuovo.
Mi girai verso la mia salvatrice così da vedere il suo sguardo cambiare da sorridente a sconvolto.
Tempo pochi secondi e il suo urlo non si fece attendere.
Cercai di coprirmi con la tenda. Dovevo sembrargli un maniaco, in piena regola. Non potevo biasimarla se ora mi stava cercando di colpire con ogni oggetto che aveva vicino.
«CHI DIAVOLO SEI? VATTENE VIA!» sbraitò.
Poi, finiti gli oggetti, tirò fuori il telefono e sapevo quali erano le sue intenzioni. Avrebbe chiamato la polizia e questo non potevo permetterlo.
Corsi verso di lei, cercando di ignorare il dolore alla gamba, e le bloccai con una mano le braccia sopra la testa e con l'altra le tappai la bocca.
«Calmati. Non voglio farti niente. So che sembra strana questa situazione ma posso spiegare.»
Lei continuò a dimenarsi.
«Sono quel gatto che hai salvato. Guardami la gamba, la stessa ferita. Giuro che non sono un maniaco e che non ho cattive intenzioni su di te. Ora ti lascerò libera ma devi promettermi che non chiamerai la polizia. Ti prego!»
Lei si bloccò per poi guardarlo in viso e poi la gamba. La vidi arrossire quando arrivò all'altezza dell'inguine ma poi i suoi occhi arrivarono alla ferita ormai libera dalla benda. Durante la trasformazione si era strappata.
Vidi l'esatto istante in cui la verità la colpì come un fulmine. Il suo sguardo tornò serio sulla mia faccia e mi fece cenno di liberarla. Io, dopo un attimo di esitazione, obbedii.
«Sei un mutaforme.» disse solamente.
«Sì. Stavo girando nei boschi quando quella trappola mi ha ferito.»
«So quali sono. Purtroppo sono anni che combattiamo da queste parti per fargliele togliere ai cacciatori ma senza risultato.»
Silenzio. Sentii salire in me il disagio. Ero nudo con una persona che cercava di scrutarmi in viso come alla ricerca di altre verità. Ma almeno non era una contraria all'esistenza dei mutaforme. Me lo diceva l'istinto. Era consapevole, come tutto il pianeta, della nostra esistenza, ma non tutti ci accettavano di buon grado. Lei non mi guardava con malignità e pregiudizio ma con... curiosità mista a diffidenza.
«Comunque il mio nome è Rafael.»
«Non è il caso che prima di presentarti di metterti qualcosa addosso?» disse solamente lei.
«Bè, non ho vestiti a portata di mano, come vedi.» feci un sorriso malizioso che la fece arrossire ancora di più.
«Che sciocca, hai ragione. Vado subito a prendertene qualcuno.» e corse via. Non vedeva l'ora di scappare da quella situazione imbarazzante. Come darle torto?
Mi coprii le parti bassi con la copertina di prima e, tempo pochi minuti, la ragazza tornò con qualche indumento da uomo.
«Erano di mio padre ma dovrebbero comunque starti bene.» spiegò.
«Grazie...» mi bloccai non sapendo il suo nome.
Lei capendo il mio problema, sorrise e si presentò.
«Lucia.»
«Grazie, Lucia.»
«Prego, Rafael»
Dopo essermi vestito e averla raggiunta per pranzo, cominciammo a parlare. Così seppi dov'ero finito. Ero nella Val D'Orcia, nell'azienda vinicola della famiglia Orazi, di cui la mia salvatrice era la proprietaria. Mi aveva trovato nel bosco dove lei di solito passeggiava tutte le mattine presto quindi da che ero stato ferito la notte prima a quando mi aveva trovato erano passate parecchie ore. Fu un miracolo che fossi ancora vivo ma, per fortuna, il taglio provocato dalla lama della trappola non era andata troppo in profondità, se no sarei morto dissanguato.
C'eravamo solo io e lei in casa. Nonostante fosse ricca, vedevo che non era una di quelle ereditiere che si crogiolava nel lusso. La casa era un'enorme casolare di tre piani ma non c'erano maggiordomi o domestici che l'aiutavano a tenerla pulita. Pensava a tutto lei, da quello che mi diceva. Teneva solo dipendenti per la produzione del vino. Insomma, questa Lucia non era decisamente una principessina viziata. Tuttavia mi sembrava fin troppo imprudente. Non era sicuro per una ragazza stare da sola ma lei mi rispose che non c'era da sottovalutarla solo per la sua statura minuta. Aveva fatto innumerevoli corsi di autodifesa e karate. A quella risposta, non ebbi più niente da dire. Affari suoi come viveva.
Le settimane passarono e, per fortuna, la minaccia di Giannini non era giunta fino all'azienda di Lucia. Passammo le giornate a parlare del più e del meno. Volevo darle in più occasioni una mano nei campi ma me l'ha sempre impedito dicendo che dovevo riguardarmi e che la ferita doveva ancora rimarginarsi.
Ma, come tutto, anche questa permanenza doveva giungere al termine. Il giorno dopo decisi che sarei andato via, di nuovo per la mia strada.
Lo riferii alla ragazza e lei mi disse che avevo ragione. Era ormai tempo ma si dimostrò comunque dispiaciuta come se stesse perdendo un amico caro. Non era possibile, vero?
Stavamo a tavola, godendoci il nostro pasto. Tuttavia, c'era una domanda che avevo in mente di farle da giorni.
«Perché mi hai salvato?»
Lei si bloccò un attimo per poi rispondere.
«Perché eri un'animale ferito ed io odio quello che fanno agli animali quelle stupide trappole.» disse ma comprendevo che era la verità mista a ironia.
«Seriamente qual è il motivo? Sono una persona cattiva a cui danno la caccia, non meritavo il tuo trattamento.» richiesi, scettico.
Lei sorrise e mi guardò con tenerezza. Non ero abituato a simili sguardi, dovevo ammetterlo, e non ne comprendevo il significato.
«Non c'è bisogno di alcun motivo per aiutare qualcuno in difficoltà, buono o cattivo che sia. Lo si fa e basta. Non è che ora mi aspetti una ricompensa, solo non mi piace vedere qualcuno ferito.»
La osservai attentamente, sembrava sincera.
«D'accordo. Facciamo che io ti creda. Ti ringrazio per il tuo aiuto.» dissi.
«Ora va meglio. Senti, ora posso farti una domanda io?»
I miei sensi in allerta, annuii. Era il minimo che potessi fare dopo che mi aveva accudito senza secondi fini. Anche se mi sembrava ancora incredibile che mi avesse curato senza volere niente in cambio. Nel mio ambiente si trattava sempre di un dare e avere, e non si faceva niente per niente.
«Sei uno di quei mutanti, giusto? Raccontami la tua storia.» mi chiese e io non esitai a rispondere. Non era di certo un segreto e il resto sarebbe stato a lei decidere se credermi o meno.
«Sono passati ormai parecchi anni da quell'evento che ha tramutato qualcuno di noi in esseri speciali. Era il 2051, ben trent'anni fa, avevo solo due anni quando l'esplosione di quella bomba colpì la mia città natale, Roma. Cosa strana è che non è successo a molte persone, solo pochi eletti avevano un DNA compatibile per quella merda che ha impregnato l'aria.»
«Questo lo so. Gli altri se la sono cavata con solo qualche febbre.»
« E' quello che hanno raccontato ai giornali ma la realtà è un po' diversa.»
Mi guardò confusa. Come poteva saperlo? La Stampa e lo Stato avevano fatto di tutto per insabbiare la cosa.
«La febbre ha ucciso molti nella capitale. Sia romani che turisti capitati nel momento sbagliato. Avevano provato con una specie di vaccino ma non ha funzionato per tutti.» spiegai.
Lei rimase a fissarmi per poi vedere quegli occhi intristirsi.
«Capisco.»
Rimanemmo in silenzio per un bel po', finendo la nostra cena. Era strano. Di solito ero capace di capire chi avevo davanti ma lei era come un enigma. Non riuscivo a capire cosa frullasse nella sua testolina ma una cosa era certa. Facevamo parte di due mondi diversi. Lei, una semplice giovane proprietaria di un'azienda vinicola di successo che non aveva certo bisogno di rubare per vivere. E dall'altra parte c'ero io, un ladruncolo che passava le giornate a complottare per il prossimo colpo e che aveva a che fare con la peggio feccia della società. Anche prima della trasformazione, la mia vita non era granché. Cresciuto in orfanotrofio, è stata solo una fortuna la mia trasformazione genetica. Almeno nella mia forma felina potevo fare dei colpi che non si sarebbe sognato nessun normale umano. Era questa la mia vita, niente impegni e andare avanti giorno per giorno. Nessun legame duraturo a cui non potevo offrire che una notte di piacere.
A un certo punto, lei ruppe il silenzio.
«Rafael.»
«Sì?»
«Dammi dell'ingenua ma io non penso che tu sia una persona cattiva, come ti definisci. È stata la vita che ti ha reso così. Tu rubi per sopravvivere e non posso biasimarti per questo. Io sono stata fortunata a essere nata in una famiglia benestante ma non sono tanto stupida da pensare che molti non hanno avuto la mia stessa benedizione. E poi, chi è che definisce se una persona è buona o cattiva? Chi è senza peccato, scagli la prima pietra.»
Mi lasciò senza parole. Non ero preparato a sentirle dire questo. Ma chi era questa ragazza? Così, a primo impatto, sembrava una persona innocente e pura, ma sentivo che c'era altro in lei.
«Se lo dici tu.»
«Non è quello che dico io l'importante, è quello che credi tu di te stesso. Ognuno di noi ha le proprie ombre.»
«Le tue quali sarebbero, Lucia?» mi lasciai scappare. Me ne pentii subito perché non era un bene che sentissi la necessità di sapere il più possibile di questa giovane. Di solito raccoglievo informazioni di persone che dovevo derubare o di possibili complici, mai di donne o gente comune. Questa esigenza improvvisa mi preoccupava e non poco.
Lucia era bella, con i suoi capelli biondo miele e gli occhi di un azzurro scuro come le profondità marine. Avevo conosciuto donne molto più belle e sensuali di lei ma, nonostante il suo abbigliamento modesto da lavoro e i capelli spettinati, in quel momento mi sembrò la più attraente del mondo.
Lì per lì pensai che non mi avrebbe risposto ma, poi, fece un bel respiro.
«Ho perso mia madre in un incidente stradale quando ero piccola. Mio padre ha fatto tutto il possibile per crescermi da solo finché non ebbe l'esigenza di trovarmi una nuova mamma. La mia matrigna fu gentile solo quando c'era papà nei paraggi, per il resto mi trattò sempre con freddezza e cattiveria.»
Mi ricordava la storia di Cenerentola ma senza le sorellastre.
«Capisco, dev'essere stata dura per te.»
«Fino ai dieci anni, poi passai gli anni in collegio e cercai di tornare a casa il meno possibile. Mio padre ci rimaneva male a ogni mio rifiuto a prolungare la permanenza ma io ero troppo terrorizzata dalla mia matrigna per fare altrimenti.»
«Oh.»
«Poi, durante una lezione all'università, mi giunse la notizia che entrambi erano morti durante un attacco terroristico mentre erano in vacanza. Da allora vivo con i rimpianti. Sarei dovuta essere più coraggiosa e stare più tempo con mio padre. Rimpiango di aver pensato solo a me.»
«Eri solo una ragazzina.»
«Già. Una stupida ragazzina viziata ed egoista.»
«Non è vero. Se tu fossi stata egoista, non mi avresti salvato.»
Lei sorrise con amarezza. «Che strana coppia facciamo. Come è strana questa sensazione che ho provato da quando ti ho visto. Non so perché ma nonostante tu sia praticamente un estraneo, sento che posso dirti praticamente tutto di me come se tu mi capissi.»
In effetti, provavo lo stesso. Era la prima volta che parlavo così tanto a qualcuno e, sopratutto, che gli svelavo parti di me come se la conoscessi da una vita. Non credevo nell'intesa immediata fino a quel momento. Parlare con Lucia, in queste settimane, fu come trovare l'altra parte di me.
«So che te ne andrai domani. Ormai stai bene, ma promettimi solo che tornerai a trovarmi.»
Sgranai gli occhi. Mi stava chiedendo di restare vivo per tornare da lei. Un battito traditore si fece sentire forte nel petto. Non mi chiedeva di restare o di diventare qualcosa di più di amici, non pretendeva niente che non potessi darle. Eppure, il suo sorriso, la sua gentilezza, mi stavano dando speranze per un futuro diverso.
Allungai la mano sul tavolo e andai a carezzarle la sua. Lei alzò lo sguardo per vedere i miei occhi.
«Te lo prometto.»
Ora e per sempre.