Sottomarino Physicorum, Oceano Atlantico - 2006
Ossessione. Non poteva definirsi in nessun altro modo ciò che aveva mio padre per la famigerata città di Atlantide. Platone, come tanti storici e studiosi avevano dato varie ipotesi sulla collocazione di questa città immersa ma nessuno aveva mai trovato prove concrete sulla sua esistenza.
Fin da bambina, papà mi aveva affascinato con mille storie a riguardo, ma la mia preferita in assoluto era quella in cui i figli mezzosangue di Poseidone avevano dato inizio a una civiltà potente e ricca.
Avevo solo quelle, le storie, a farmi compagnia. In realtà, c'erano anche altre persone nel sottomarino di mio padre, e mi avevano cresciuta come fossi loro nipote, ma non era la stessa cosa che avere intorno gente della mia età. Ero l'unica adolescente di sedici anni, gli altri erano tutti uomini e donne di mezza età o sessantenni.
Il Physicorum, l'“Indistruttibile”, era tutto il mio mondo. Da quando ero nata, non ero mai uscita da questo enorme sottomarino e non avrei saputo nemmeno come fosse fatto il mondo, se non fosse stato per i libri di mio padre. Leonardo De Ciantis mi aveva trasmesso l'amore per il latino e tutto ciò che riguardava la mitologia greca e romana. Il mio nome, Lucilla, e Physicorum, ne erano la prova.
Non avevo mai conosciuto neanche mia madre. Il mio unico genitore mi aveva raccontato che era morta quando io avevo un anno, che era stata una donna buona e gentile con tutti. Avevo cercato di non chiedere spesso di lei, perché rendeva triste papà, ma la curiosità era rimasta. Avevo domandato alla ciurma e, sempre grazie a loro, avevo trovato delle vecchie fotografie di lei e papà insieme. Forse, se lei fosse stata ancora viva, il capitano Leonardo non avrebbe continuato a inseguire un mito. E non mi avrebbe cresciuta segregata in fondo al mare. Lui riteneva che il mondo esterno fosse troppo pericoloso e, troppo addolorato per la perdita della sua adorata moglie, aveva deciso di farci vivere nel Physicorum. Non voleva rischiare di perdere anche me. Cosa assurda… ma una figlia non poteva permettersi di contraddire un genitore.
Sembrava che fosse arrivato finalmente il momento della verità. Stavamo sorvolando le acque dell'Oceano Atlantico e, a un certo punto, l'allarme cominciò a suonare. Le pareti si illuminarono di rosso, la sirena suonò sempre più forte. Mi affacciai nel vetro della mia stanza. Non riuscii a vedere molto, solo un buco nero che non prometteva niente di buono. Uscii di corsa e andai verso il centro comandi. Una grossa scossa mi fece sbattere contro la parete e, poi, cadere. La mia goffaggine non aiutò di certo ad ammortizzare il colpo. Cos'era stato?
-Qualcosa ci sta attaccando! Subito alle capsule di salvataggio!- urlò zio Robel, uno dei più anziani della ciurma. Il resto si divise tra quelli che correvano verso le capsule e chi, invece, andò ad aiutare mio padre.
Mi rialzai e corsi, un po' dolorante per la botta subita. Spalancai la porta del centro comandi e trovai il caos. Non capii subito cosa c'era che non andava ma, poi, guardai lo schermo di fronte a me. No, era impossibile.
Si diceva che all'entrata della città di Atlantide ci fossero mostri marini di guardia. Storielle per spaventare i marinai, avevo sempre pensato. Ma eccolo lì. Il Kraken.
Mi stropicciai gli occhi e controllai che non avessi bernoccoli in testa. Forse la botta presa con la parete mi aveva stordita più di quanto pensassi. Per sicurezza, mi diedi anche un pizzicotto, ma niente. Il mostro era ancora lì e stava per avvolgerci con i suoi enormi tentacoli.
Prima che potessimo sentire un'altra scossa, mi ressi forte al corrimano delle scale che portavano al centro della sala.
-Papà!- urlai per richiamare la sua attenzione e, quando si girò per guardarmi, sentii il ghiaccio nelle vene. Non lo avevo mai visto così terrorizzato e affascinato al tempo stesso. Una eccentrica combinazione ma comprensibile visto che aveva aspettato tutta la vita per quel momento. Molti lo avevano definito pazzo a inseguire un sogno, una città immaginaria, ma se esisteva davvero un Kraken, sarebbe potuta esistere anche Atlantide.
-Lucilla! Guarda! Se lui è qui, potrebbe esserci anche la città sommersa. Non sono mai stato un folle- disse con gli occhi sgranati che luccicavano. Non mi piacevano per niente.
-Papà, dobbiamo andare via da qui. Non abbiamo abbastanza armi o bombe per contrastare questo mostro- cercai di farlo ragionare. Lo raggiunsi e mi aggrappai al suo braccio. Il resto dell'equipaggio stava cercando di ostacolare la creatura, per darmi il tempo necessario a far rinsavire mio padre. Dovevamo fuggire, non insistere e illuderci di poter superare una simile difesa.
-Tutti si ricrederanno. Tutti vedranno che la leggenda è vera. Siamo così vicini, figlia mia, non possiamo tirarci indietro proprio adesso- mi prese per le spalle e strinse fino a farmi male.
-NO! Dobbiamo andarcene. Il Physicorum sta per cedere, andiamo via prima che sia troppo tar...- ma non finii la frase che un altro attacco del Kraken scosse il sottomarino e ricaddi di nuovo ma stavolta sbattei la testa contro il pavimento. Il dolore fu forte ma non abbastanza da farmi perdere conoscenza. Portai la mano al capo e vidi alcune ciocche di capelli castani sporchi di sangue. Le cose andavano di male in peggio.
Ma almeno la vista del mio sangue fu in grado di riportare mio padre alla realtà. Si riscosse e corse verso di me, preoccupato e pieno di terrore.
-Tesoro mio, cosa ho fatto? Ho mandato tutti alla rovina- si guardò intorno. L'acqua che cominciava a entrare dalle spaccature del rivestimento del sottomarino, sia dalla parte sopra che ai lati, le urla dell'equipaggio, la fine di tutto.
-Per me sarà pure finita ma non per te. Tu devi vivere- sentenziò a voce bassa. Una carezza sul viso e poi mi prese in braccio. Non riuscii a spiccicare parola. Troppo debole e stordita dagli impatti, riuscii a vedere solo il viso concentrato di mio padre che mi stava portando via dalla sala comandi.
Chiusi gli occhi e quando li riaprii, sentii una superficie fredda sulla schiena. Papà mi aveva depositato in una capsula di sicurezza.
-No... no... non voglio lasciarti- sussurrai, le lacrime che cominciarono a uscire dai miei occhi. Lui era tutto ciò che avevo, fuori dal Physicorum non avevo niente.
-Perdonami- mi strinse in un abbraccio. Intensificai la stretta e avvolsi una mano tra i suoi capelli biondi. Anche lui aveva una ferita in testa, il sangue gli ricoprì una parte del volto. Occhi dello stesso colore azzurro scuro che si fissavano.
-No...-
Si staccò da me e mi sorrise. Un sorriso dolce e malinconico. Un addio.
-Ti voglio bene.-
Sgranai gli occhi e feci per uscire dalla capsula ma lui fu molto più rapido e mi chiuse dentro.
Il mio urlo di dolore soffocato.
La capsula riuscì a distaccarsi giusto in tempo dal sottomarino. Il Physicorum esplose sotto la pressione del Kraken e i suoi pezzi si sparpagliarono intorno al buco nero. Ma il Destino, come a fregarsene del mio dolore, continuo a infierire facendomi schiantare contro uno dei pezzi. Si formò una crepa e l'acqua cominciò a penetrare nella capsula, soffocandomi. A quanto pareva, l'ultimo desiderio di mio padre non sarebbe stato esaudito. Non sarei sopravvissuta e forse era meglio così. Avrei raggiunto i miei genitori molto presto.
La capsula si aprì del tutto e il mio corpo uscì, continuando l'ascesa nel vuoto dell'abisso, il viso rivolto verso la superficie. Sentii freddo, la morte stava per raggiungermi. Mi sarebbe piaciuto vedere almeno una volta il mondo esterno. Solo una misera volta. E con questo pensiero, chiusi gli occhi, lasciandomi andare all'oblio.
Calore, benessere. Mi sentivo bene, come avvolta da una luce. Forse era quello il Paradiso e presto avrei visto i miei.
Papà. Papà. Lo chiamai e il suo volto mi apparve, sorridente. “Vivi”, continuava a dirmi. “Vivi.”
Poi, l'illusione si dissolse.
Poco prima che mi svegliassi di soprassalto, sentii qualcosa premere sulle mie labbra. Aprii piano gli occhi e vidi che c'era un viso vicino a me. Sconvolta, mi resi conto che mi stava facendo la respirazione bocca a bocca. Chiunque fosse, lo scansai subito e girandomi di lato sputai tutta l'acqua che aveva otturato i miei poveri polmoni. Una volta che il respiro si regolarizzò, mi girai verso colui che mi aveva salvato. Era un ragazzo poco più grande di me, con capelli corti e mossi del colore della notte più oscura e iridi di un azzurro molto chiaro. Queste ultime erano davvero particolari, non potei fare a meno di ammirarle. Forse lo stavo fissando da troppo tempo perché lui tossì a disagio da quell'esame.
-Chi... chi siete?-
-Non aver paura. Sei al sicuro adesso- alzò le mani in segno di rassicurazione.
-Chi siete?- ripetei con più decisione stavolta. Non volevo stare calma, volevo risposte.
-Mi chiamo Herodion.-
Greco. Ma adesso pensai a un'altra questione insolita.
-Come fai a conoscere la mia lingua?-
-Qui, ad Atlantide, conosciamo molte lingue del mondo esterno. Siamo molto più intelligenti di voi della superficie.-
-Beh, grazie tante per avermi dato dell'essere inferiore.-
-Non era mia intenzione offenderti.-
La parola Atlantide arrivò al mio cervello e fu in quel momento che feci caso al mondo che mi circondava. Una città fatta di pietre e conchiglie, statue di Poseidone... Atlantide. Allora esisteva davvero. “Oh, papà. Avevi ragione e ora non potrai più gioire della realizzazione del tuo sogno.” Al pensiero di mio padre, le lacrime fecero di nuovo capolino. Ero sola adesso. Mio papà, l'equipaggio del Physicorum, tutto perduto.
Il ragazzo rimase scioccato dalle mie lacrime ma poi si guardò intorno, e anch'io. Doveva essere notte, non c'era nessuno in giro ma ci trovavamo alle porte della città, su un pavimento in pietra.
-È meglio che ci spostiamo da qui. È stata una fortuna che fosse il mio turno di guardia. Riesci ad alzarti?-
Aveva una bella voce. Calda e virile. Annuii e mi alzai piano e con cautela. Sentivo dolore dappertutto ed ero zuppa fino al midollo. Viva per miracolo ma viva. Non era un sogno quello, e nemmeno il Paradiso.
Le ginocchia stavano per cedermi di nuovo ma lui fu pronto di riflessi e mi prese in braccio. Mi sentii in imbarazzo a farmi aiutare da uno sconosciuto. Pensavo di poter camminare con le mie sole forze, ma mi sbagliavo. Il suo aiuto fu grande e necessario.
Mi portò nella sua casa in cui abitava da solo. Mentre mi curava, mi raccontò della sua vita da orfano, della sua città e di come funzionava la loro comunità. Lui faceva parte dell'esercito di Atlantide, era diventato ufficialmente un soldato da un paio d'anni. Il popolo atlantidese contava circa settemila abitanti, il territorio era esteso, circondato da una barriera rocciosa creata secoli or sono dal dio Poseidone per proteggere la sua prole dall'annegamento. Per determinare il giorno e la notte c'erano le luci di uno speciale corallo che captava il calore in superficie.
Erano, d'aspetto, comuni esseri umani, nessun potere divino era sopravvissuto in troppe generazioni. Vivevano in modo pacifico e con ciò che la Natura gli offriva. L'esercito, tutto sommato, serviva solo in caso che qualche minaccia dall'esterno sopravvivesse al Kraken, ma era praticamente impossibile.
Herodion mi disse anche che ero caduta nel buco nero e la corrente marina mi aveva spinto fino alla barriera. Aveva nuotato fino a me per farmi entrare nella città così che potessi prendere l'ossigeno necessario e per fortuna ce l'avevo fatta. Alla fine, il Destino non era stato del tutto crudele. Anche se il pensiero di mio padre mi provocava continue fitte al cuore.
Passarono i mesi, un anno, poi, due. Avevo iniziato a vivere. Mi ero adattata e la gente mi aveva accettata, nonostante la diffidenza iniziale per via delle mie origini. Vedevo il mondo con i miei occhi, il mare con le sue bellezze. Forse non avrei mai visto la luce del sole ma ero felice ugualmente. Ero libera dalla mia gabbia di ferro, qual era il Physicorum, ed ero circondata da nuove persone, pronte ad amarmi. Stavo vivendo il sogno di mio padre e me lo sarei goduto fino alla fine dei miei giorni.
Herodion rimase al mio fianco, sempre. Aveva solo quattro anni più di me ma sembrava già un uomo vissuto. Noi due, esseri soli e senza famiglia, avevamo trovato nell'altro la completezza.
Le sere andavamo nel confine ad ammirare il cambio di luce dei coralli. Era diventata un'abitudine piacevole e, un giorno, il suo sorriso e la sua stretta alla mano furono rivelatori.
Scoprii anche cosa volesse dire amare qualcuno e quando Herodion mi fece la fatidica domanda, non potei che rispondergli in un solo modo.
-Insieme per sempre?-
-Sì. Insieme per sempre.-
Ebbene sì, ho scelto la musica dei Two Steps from Hell e devo ringraziare Lara della Nicchia Letteraria per avermeli fatti scoprire. Lo so che la canzone è intitolata Snow Angels ma, invece, che ispirarmi una storia in cui c'è la neve di mezzo, ho pensato a qualcosa di misterioso, come una caduta nel vuoto, e poi a una specie di rinascita. E poi, ho preso un pochino di spunto da Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne, autore che adoro. Spero vi sia piaciuto anche questo racconto.